Lo zen e il destino di Django

Non conoscevo la storia di Django Reinhardt. La scopro oggi, a cento anni dalla sua nascita. La vita di questo musicista gitano mi ha ricordato una antica “favola” zen che ho letto per caso tempo fa.

Un contadino anziano molto povero perde il suo unico, bellissimo cavallo bianco. Che sfortuna!, dissero gli abitanti del villaggio. Se si tratti di sfortuna o di una benedizione non lo so, perché conosciamo solo una parte, rispose l’anziano. La gente gli rise in faccia ed andò via. Poco tempo dopo il cavallo tornò con al seguito 12 cavalli selvaggi ancora più belli. Che fortuna!, dissero gli abitanti del villaggio. Ma la risposta del contadino era sempre la stessa. Di nuovo vi spingete troppo avanti. Continuate a dare giudizi, senza sapere niente. Dite soltanto che il cavallo è tornato. In seguito, il figlio del vecchio cominciò ad addestrare i cavalli, ma cadde e si ruppe le gambe. Il ragazzo era l’unico sostentamento in famiglia, quindi gli abitanti del villaggio di nuovo esclamarono: che sfortuna! Avevi ragione nonnino! Identica fu la risposta del saggio: non andate troppo lontano. Dite soltanto che mio figlio si è rotto le gambe. Nessuno sa se è una sfortuna o una benedizione. Successe che dopo poche settimane il paese entrò in guerra e tutti i giovani furono arruolati con forza nell’esercito. Fu risparmiato solo il figlio del vecchio, perché era zoppo. La gente del posto si recò dal vecchio e disse: nonnetto, avevi veramente ragione, l’incidente a tuo figlio è stata una vera benedizione. Ma la risposta del contadino fu identica. Dite soltanto che i vostri figli sono stati arruolati a forza nell’esercito, mentre mio figlio no. Se leggete una sola frase, come potete giudicare tutto il libro?

Jean Batptiste Reinhardt, detto Django, tra il 1931 e il 1953 ha dato vita al cosiddetto jazz manouche.

Sfogliando la biografia di Django si intuisce che il destino di questa figura nasce da un imprevedibile reticolo di più elementi. Uno straordinario complesso di cose che può essere definito sia caso fortuito o mistero, sia miracolo o predestinazione, a seconda dei diversi punti di vista.

Django iniziò la sua carriera musicale da autodidatta: ascoltando e improvvisando. Nel 1928 in un drammatico incendio perse l’uso parziale della gamba e della mano sinistra. Da questo evento, che normalmente definiamo dramma, inizia invece una leggenda. Durante la riabilitazione lunga e dolorosa, il fratello Nin-Nin gli regala una chitarra. Sin da quando era piccolo Django aveva suonato in famiglia. Aveva un orecchio musicale spiccato e una brillante capacità di improvvisare. E dunque, mostrando un temperamento tenace e fiero, Django mette a punto una tecnica adatta alla sua menomazione: crea nuove diteggiature per la mano sinistra, così, spontaneamente. Aveva soli 18 anni.

Le occasioni della vita fecero il resto: scopre il jazz a casa dell’amico pittore Emile Savitry, che gli fa ascoltare Duke Ellington e Louis Armstrong. Poi conosce per caso il violinista Stephane Grappelli e già pochi giorni dopo forma il quintetto “Hot Club de France”.

Negli stessi anni, parallelamente, questa fitta rete di avvenimenti intrecciati raggiunge Bologna, Parigi e Londra: Mario Maccaferri di Cento (Bo), maestro liutaio nonché valente chitarrista classico (considerato al pari di Segovia), a causa di una grave frattura al polso decideva di abbandonare la musica per dedicarsi alla realizzazione di un suo desiderio: costruire una chitarra dal suono chiaro e potente. A Londra incontrò Henry Selmer, il presidente di una compagnia che costruiva strumenti a fiato. E nel 1932 dalla ditta Selmer a Parigi uscì la prima chitarra con le tecniche innovative ideate da Maccaferri. Presto anche Django si interessò a quel tipo di chitarre, che perfettamente si adattavano al suo stile. Da quel momento, la Selmer-Maccaferri divenne, ed è tutt’oggi, lo strumento eletto ed insostituibile per il jazz manouche, in ogni parte del mondo. Ed ecco quindi che la trama si infittisce.

Termina un sentiero, un altro si riapre. Il viaggio non finisce mai. L’incidente alla mano, infatti, non solo cambiò la vita di Django, o di Maccaferri, ma sollevò altresì un’autentica rivoluzione. Egli aveva sovvertito la tecnica della chitarra jazz per sempre: una musica del tutto nuova, trascinante, emozionante. Nei libri, e nel web vi sono descrizioni del genere “manouche” che esaltano tanto quanto l’ascolto stesso.

Una sinergia di elementi ha dunque mutato radicalmente il destino del jazz, frammenti a sé stanti che si comprendono solo a posteriori: il temperamento di Django, la curiosità verso ogni novità in ambito musicale, il suo talento, la personalità orgogliosa, l’ambiziosa, appassionata e impenetrabile, la ricerca stilistica, la contaminazione tra culture, la disciplina di un professionista, il virtuosismo trascendentale ed eclettico tipico del chitarrista tzigano. A tutto ciò si unisce la sua origine manouche, la genialità e la stravaganza del personaggio, i viaggi di una carovana itinerante. Infine l’incontro, fruttuoso in ogni epoca, tra culture, artisti, persone, musicisti, generi, stili, ritmi.

Numerosi elementi, molteplici come una serie di piccoli punti.

La vicenda di Django mi appare, infatti, sottoforma di puntini. Visti tutti assieme a ritroso, si concretizzano in un disegno inatteso. Ed ecco che mi si svela semplice e chiara la morale della favola zen: L’incendio avvenuto il 26 ottobre 1928 alle prime luci dell’alba, in una roulotte parcheggiata fuori dalle porte di Clignancourt, a Parigi è da considerarsi fortuna o sfortuna? La vita arriva a frammenti. Se hai solo conoscenze limitate è inevitabile che ti lasci andare a conclusioni. Una volta che cominci a giudicare, hai smesso di crescere. Il giudizio significa uno stato della mente stagnante. L’incendio fu dunque puro accadimento.

E chiedendomi quale motore scatenante abbia portato Django Reinhardt a creare, con “puntini” incomprensibili, un risultato così sorprendente, la risposta è conosciuta, universale e senza tempo: la passione, l’istinto, la forza d’animoLa cosa più importante di tutti, è avere il coraggio di seguire il proprio cuore e la propria  intuizione. In qualche modo loro sanno che cosa si vuole realmente diventare. Tutto il resto è secondario.

Quest’anno un complesso di cose fa sì che ci sia il Pennabilli Django Festival
Tutto il resto è secondario.
(G.P.)

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